mercoledì 31 maggio 2017

"Le età della vita" in pittura e fotografia

Uno dei temi analizzati dalla filosofia e dalla psicologia (ma non solo) è senza dubbio il trascorrere del tempo, inteso come passaggio attraverso le diverse fasi della vita che, da quella di crescita (infanzia, fanciullezza, adolescenza) attraverso la giovinezza e la maturità, portano alla vecchiaia, l’età più critica, spesso associata alla decadenza sia fisica che mentale, ma anche simbolo di saggezza. Tra le età dell’uomo, quest’ultima, è la sola che non ha una fase successiva, può solo prolungarsi e portare alla conclusione della vita. Anche la storia dell’arte ne tratta e, sia in pittura che in fotografia, possiamo trovare diversi esempi in cui le molteplici età dell’uomo sono “fermate” in un’immagine. Analizzando alcune fotografie osserviamo come autori famosi attraverso ritratti di famiglia o fotografie di strada si occupano di questo tema. Tra questi, due americani: Lewis Hine e la fotografia del 1908 che ha come titolo “Millworkers in Salisbury” e Dorothea Lange con il suo lavoro “Impounded” (ossia “sotto sequestro” - 1942) in cui ritrae una famiglia orientale in attesa di un bus. Interessante il siciliano Giovanni Verga (scrittore di romanzi appartenente alla corrente del verismo in Italia, ma anche bravo, seppur non troppo noto, fotografo) che nel 1878 realizza la sua prima fotografia di un nucleo familiare a Catania. E poi Robert Frank con “Canal street a New Orleans” (1955) che riesce a cogliere il momento in cui in una strada affollata passano persone di tutte le età. Nel 1965 Gianni Berengo Gardin ci presenta 15 figure, nel comune laziale di Oriolo Romano, in una fotografia passata alla storia. Joyce Tenneson con i suoi corpi delicati ed eterei ci mostra una versione più sognante e forse meno cruda del trascorrere del tempo e delle “trasformazioni”, come dice il titolo del volume da cui è tratta la fotografia “Un uomo e due donne” (1988). 

Lewis Hine
Millworkers in Salisbury (1908)
Dorothea Lange
Impounded (1942)
Giovanni Verga (1878)
Robert Frank
Canal street a New Orleans
(1955)
Gianni Berengo Gardin (1965)
Joyce Tennyson
Un uomo e due donne (1988)
Differenti, ma sempre riguardanti le fasi della vita, alcune fotografie di Christopher Broadbent, nato a Londra e specializzato in nature morte in cui le composizioni ricordano gli antichi pittori del seicento-settecento. In alcuni casi ci mostra vasi di fiori (“Flowers” 2012-2013), elementi simbolici correlati alla caducità della vita e al senso di precarietà, simboli che rappresentano la labilità della bellezza, per definizione destinata inevitabilmente a deperire. Descrive le tre età: i boccioli della giovinezza, i fiori sbocciati per la maturità e quelli appassiti con i petali caduti a rappresentare la stanchezza e l’invecchiamento. 

Christopher Broadbent
Flowers (2012-2013)
Edouard Manet
Vaso di peonie su piedistallo
(1864)













Viene spontaneo pensare al dipinto “Vaso di peonie su piedistallo” (1864) di Edouard Manet, precursore degli impressionisti e anche grande interprete della natura morta, che raffigura un piccolo vaso di ceramica con un mazzo di fiori rosa e rossi, in mezzo a foglie verdi. Uno stelo è caduto sul piano del tavolo, dove giacciono anche alcuni petali. 
Non si possono non menzionare i dipinti, già analizzati, di Paul Gauguin (“Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?” - 1897; vedere post http://monicamazzolini.blogspot.it/search?q=gauguin) e Gustave Klimt (“Le tre età della donna” - 1905; vedere post http://monicamazzolini.blogspot.it/search?q=klimt). 

Paul Gauguin
Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? (1897)
Gustave Klimt
Le tre età della donna (1905)










Anche Pablo Picasso ci regala una sua interpretazione del tema con “Nus masculins (Le tre fasi dell'uomo)” datato 1942. Interessante l’analisi di Vincent van Gogh (“I bevitori” o Le quattro età dell’uomo - 1890) che ci mostra il bambino intento a bere un bicchiere di latte, il giovane che beve acqua e altre due figure con un bicchiere di vino. Andando indietro nel tempo troviamo il dipinto “Le tre età dell'uomo” di Giorgione (1501) e di Tiziano Vecellio (1512); Van Dyck ne rappresenta quattro (“Le quattro età dell'uomo” 1621-1625) come del resto fa anche Valentine de Boulogne nel 1627. Hans Baldung Grien oltre all’infanzia, all’età matura ed alla vecchiaia aggiunge anche la morte (“La Morte e le tre età dell’uomo” - 1540) e infine, ancora Tiziano che si autoritrae nel dipinto “Allegoria della prudenza” (o le tre età dell'uomo; 1565-1570).

Pablo Picasso
Nus masculins (Le tre fasi dell'uomo)
1942
Vincent van Gogh
I bevitori (Le quattro età dell’uomo)
1890


Giorgione Le tre età dell'uomo (1501) 

Tiziano
Le tre età dell'uomo (1512)
Hans Baldung Grien
La morte e le tre età dell'uomo
(1540)

Van Dyck
Le quattro età dell'uomo (1621-1625)
 
Tiziano
Allegoria della prudenza
(Le tre età dell'uomo)
(1565-1570)

Valentine de Boulogne
Le quattro età dell'uomo (1627)

Nelle differenti fasi si passa attraverso la mancanza di ricordi e la completa dipendenza dai genitori, al momento in cui si ha coscienza di sè e ci si muove in maniera autonoma all’interno della società (un’età in cui si commettono errori perché spinti dall’impeto del desiderio e dalla curiosità, ma non si ha la consapevolezza delle conseguenze delle azioni). Si arriva, passando prima per l’età adulta (con il raggiungimento della pienezza fisica e mentale), alla maturità durante la quale grazie all’esperienza ci si assesta. Infine sopraggiunge l’età più critica, la senilità. E’ possibile riassumere tutto questo attraverso l’enigma - tratto dalla mitologia greca - che la Sfinge pone ad Edipo: “Qual’è quell’animale sulla terra che il mattino va con quattro piedi, a mezzogiorno con due e la sera con tre ed ha una sola voce, ed è l'unico, tra coloro che si muovono, a cambiare la propria natura, ma quando per camminare usa più piedi la sua velocità in proporzione diminuisce? Edipo risponde: è l'uomo, che da bambino cammina carponi; divenuto maturo cammina ritto su due piedi, e da vecchio per camminare deve servirsi di un bastone come sostegno”.

lunedì 22 maggio 2017

Un oggetto dai vari significati...


Partiamo da un oggetto. Un oggetto comune, apparentemente semplice, ma che è in grado di svelare e rivelare, riflettere, ingannare, duplicare e deformare. E per tutte queste sue caratteristiche può essere considerato un simbolo, una metafora. Possiamo dargli un significato concreto ma anche psicologico. Partiamo dallo specchio. Da sempre ha stimolato l’immaginario umano ed ha fatto parte delle credenze popolari. L’hanno usato gli scrittori: la storia di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, la favola di Cenerentola, i romanzi di Pirandello. Ma anche i pittori ed i fotografi. Basti pensare al mito di Narciso dipinto tra gli altri da Caravaggio (“Narciso” 1597-1599) e Salvador Dalì (“Metamorfosi di Narciso” 1936-1937). 

Caravaggio Narciso
(1597-1599)
Salvador Dalì
Metamorfosi di Narciso (1936-1937)




Assolutamente da nominare: il “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di Jan Van Eyck (1434) e “Il cambiavalute e la moglie” di Quentin Massys (1514) dove in entrambi i casi piccoli specchi ci rivelano parti nascoste della scena. Lo stesso vale per “Las Meninas” (1656) di Diego Velazquez: ritratto della famiglia del re di Spagna raffigura lo stesso pittore ed alcune persone vicine ai sovrani che ci appaiono nello specchio. Non appaiono direttamente nella scena bensì posizionati come se fossero gli spettatori; in effetti l’osservatore non può vedere se stesso se non come riflesso; si trovano nella nostra stessa posizione mentre guardiamo questo dipinto (o qualsiasi altro). Sempre Diego Velazquez con lo stesso gioco, nel dipinto “Venere allo specchio” (1650), ci permette di ammirarne il viso della sensuale donna che altrimenti non si potrebbe vedere perché ritratta di schiena. 

Jan Van Eyck
Ritratto dei coniugi Arnolfini
(1434) 

 Quentin Massys
 Il cambiavalute e la moglie (1514)

Diego Velazquez
Las Meninas (1656)

Diego Velazquez
Venere allo specchio (1650)























Ma anche Artemisia Gentileschi, che si ritrae nella “Conversione della Maddalena” (1617-1620), inserisce uno specchio nel dipinto. In questo caso l’oggetto viene quasi coperto con la mano della figura femminile che lo allontana da se; inoltre, degno di nota, non è ben visibile quello che vi si riflette sulla superfice. Un'altra Maddalena, e mi riferisco alla “Maddalena penitente” (1639-1643) di Georges de La Tour, tenendo in grembo un teschio, guarda lo specchio dove si riflette chiaramente una candela accesa, ed ecco il rapporto e la dicotomia tra morte e vita. Interessante la “Vanitas” di Bernardo Strozzi (1637 circa) che con quest’opera parla di debolezze umane. E lo fa usando come soggetto una donna che si specchia. Ma questa donna, che vorrebbe ancora essere bella, ha i capelli bianchi, la pelle avvizzita, le rughe, i seni cadenti perché è una vecchia, inconsapevole o non curante della propria età, che così appare vanitosa, ridicola e lussuriosa. In tale contesto lo specchio rappresenta la vanitas ed anche la veritas poiché nell’immagine riflessa c’è la ricerca della bellezza ma si trova solo la realtà. Un segno con duplice significato: da un lato inganna perché seduce colei che si guarda, dall'altro dice la verità perché riflette sempre ciò che è. Procedendo lungo il corso della storia dell’arte, il pre-impressionista Édouard Manet usa lo specchio nel famosissimo dipinto “Il bar delle Folies-Bergère” (1881-1882) per permetterci di vedere una scena più allargata. 

Artemisia Gentileschi
Conversione della Maddalena
(1617-1620)
Georges de La Tour
Maddalena penitente
(o Maddalena allo specchio)
1639-1643
Bernardo Strozzi
Vanitas (La vecchia civetta)
1635

Édouard Manet
Il bar delle Folies-Bergère
(1881-1882)

















Completamente differente l’uso che ne fa Francis Bacon nel “Ritratto di George Dyer allo specchio” (1968): deformazione ed imbruttimento è quello che ne deriva ed il significato è chiaramente simbolo della parte più intima, più segreta della sfera interiore. Con il dipinto “I giorni dorati” di Balthus (1944–1946) ancora parliamo d’inconscio e della sua analisi: l’atteggiamento della ragazza adolescente ed il suo rapporto di sguardi con lo spettatore (ossia noi) e con lo specchio la dicono lunga. Degna di nota è Frida Kahlo che ha iniziato ad autoritrarsi durante la malattia, che l’ha costretta immobile a letto, proprio usando uno specchio. 

Balthus
I giorni dorati (1944–1946) 
Frida Kahlo (1951)












Tra i fotografi: Lady Clementina Hawarden ritrae Clementina Maude (1862-1863) mentre si specchia. Nel 1932 Brassaï fotografa persone nei caffè parigini e due famosi scatti sono: “Couple d’amoureux dans un petit café” (1932) e “Groupe joyeux au bal musette des Quatre-Saisons”; in entrambi i casi, lo specchio amplia il nostro punto di vista. 

Lady Clementina Hawarden
Clementina Maude
(1862-1863) 
Brassai  (1932)
Brassai  (1932)























Interessante e particolare “The body: photographs of the human form” (1937) di Herbert List, fotografo metafisico e surreale, che costruisce un corpo usando al posto del viso proprio uno specchio. Nella fotografia “Il ragazzo e lo specchio deformante” (1960) di John Chillingworth già dal titolo si comprende come lo specchio sia usato per descrivere la deformazione che ritroviamo anche nella foto-sequenza “Dr Heisenberg's Magic Mirror of Uncertainty” (1998) di Duane Michals: “Odette non può mai sapere con alcuna certezza quale immagine di sè vedrà riflessa nello specchio” e in questo caso ne sono state catturate sei. Viene raccontata una storia in cui la modella tenta di riconoscersi, ma vede nuovi e sconosciuti lati del suo viso, scoprendo altre dimensioni di sè. Incertezza, rivelazione e scoperta. Come lo stesso autore scrive nell’ultimo scatto: “L’incertezza permette qualsiasi cosa e qualunque cosa”. Chi ha usato in molte delle sue fotografie lo specchio è, senza dubbio, Francesca Woodman: “Self deceit 1, Roma” (1978) - che letteralmente vuol dire autoinganno, illusione - e “Untitled, Providence, Rhode Island” (1976) sono due esempi in cui lei si autoritrae parzialmente riflessa. Una presenza. Come il suo, il nostro inconscio. Luogo dove tutto c’è ma è oscuro e non si vede facilmente. 

Herbert List
The Body Photographs of the Human Form
(1937)
John Chillingworth
Il ragazzo e lo specchio deformante
(1960) 

Duane Michals
Dr Heisenberg's Magic Mirror of Uncertainty (1998) 

Francesca Woodman
Self deceit 1  Roma (1978)
























In questo breve excursus non possiamo non citare Vivian Maier (anche lei scatta molti autoritratti usando specchi e oggetti riflettenti di vario genere) con “Autoritratto” (giugno 1953). E poi Elliott Erwitt con “Paris” (1958) dove la scena è composta da un panorama con un edificio sullo sfondo, un parco ed una donna rivolta di schiena che, tenendo in mano uno specchio, rivela se stessa. Risale al 1977 lo scatto di Philippe Morillon che ritrae Andy Warhol che sorregge ben tre specchi mostrandoci i vari lati del suo volto. Come vari sono le nostre sfaccettature. Per dirla alla Pirandello, tutti siamo “uno, nessuno e centomila”. Un auto-ritratto di Henri Cartier-Bresson mentre si ritrae in un dipinto. E per concludere, in una carrozza di un treno, Ferdinando Scianna ci descrive una coppia di “Innamorati in viaggio” (1991).  

Vivia Maier
Autoritratto giugno (1953)

Elliott Erwitt
Paris (1958)

Philippe Morillon
Andy Warhol (1977)

Henri Cartier-Bresson
Autoritratto (1992)

Ferdinando Scianna
Innamorati in viaggio (1991) 


























In una sua celebre frase afferma: “Si può mentire con le fotografie. Si può persino dire la verità, per quanto ciò sia estremamente difficile. Il luogo comune vuole che la fotografia sia specchio del mondo ed io credo occorra rovesciarlo: il mondo è lo specchio del fotografo”.