sabato 30 settembre 2017

Fotografie, disegni, dipinti, installazioni e performance: il simbolo dei “mucchi” nell’Arte… Forse il titolo può non sembrare allettante ma non lasciatevi trarre in inganno dalle apparenze… provate a leggere.

Questo scritto nasce da una riflessione circa il concetto, molto attuale e spesso chiamato in causa, per cui siamo invasi da molte immagini... Forse troppe? Ognuno ha la sua rispettabile idea in merito... A questo ben si aggancia l’installazione “24 hours in photos” (2011) dell’artista olandese Erik Kessel che ci mette difronte - non all’idea astratta - ma alla concretezza della quantità di fotografie che vengono condivise in un giorno (scelto a caso) su internet. Per il suo intento le ha scaricate e stampate tutte per poi accumularle nel luogo che all’occorrenza l’ha ospitato. Il risultato? Un enorme e straripante cumulo di fotografie poste disordinatamente l’una sull’altra. Fotografie che rappresentano la sintesi della nostra società: fotografie intime e private, fotografie familiari, fotografie turistiche, fotografie di ogni tipo, con differenti oggetti e soggetti. Questo “mucchio” può essere definito un simbolo della nosta società perchè ne sono racchiuse molte caratteristiche. Perchè simbolo? Secondo il mio tanto caro dizionario sìmbolo deriva dal latino. symbŏlus e symbŏlum e dal greco σύμβολον e συμβάλλω e significa accostamento, segno di riconoscimento, mettere insieme, far coincidere. Rappresenta qualsiasi elemento (segno, gesto, oggetto, animale, persona) atto a suscitare nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato aspetto sensibile, ma capace di evocarla attraverso qualcuno degli aspetti che caratterizzano l’elemento stesso, a cui si attribuisce la possibilità di richiamare o significare un valore ulteriore, più ampio e astratto rispetto a quello che normalmente rappresenta. Ma ritornando all’Arte, nella mia mente riallaccio alla sorta di “voyerismo” dell’opera sopra citata, il film “One Hour Photo” (2002 scritto, sceneggiato e diretto da Mark Romanek) dove il protagonista principale, commesso di un negozio, ci mostra la sua morbosità e idealizzazione nei confronti della famiglia di una cliente abituale. Ne diventa ossessionato a tal punto che tappezza una parete del suo appartamento con tutte le loro foto, ottenute dai rullini sviluppati nel corso negli anni, come una sorta di metodo destinato a riempire il vuoto dell’animo. 

24 hours in photos - Erik Kessel (2011) 
Scena dal film One Hour Photo










Andando a spulciare nella mia memoria mi son venute in mente altre opere che hanno a che fare con i “mucchi”. Sono fotografie, disegni, dipinti, installazioni e performance con simboli e significati talvolta differenti e talora confrontabili o associabili e che rappresentano una denuncia nei confronti della società. Penso alla performance di Marina Abramovic - che nel 1997 presenta alla Biennale di Venezia - Balkan Baroque” (Rif.1): seduta sopra un cumulo di ossa animali, cantando canzoni tipiche della sua terra (lei è di origine balcanica), munita di spazzola di ferro gratta le ossa, una ad una, per ripulirle. Il canto e il gesto uniti all’odore pungente simboleggiano in maniera chiara, profonda ed indelebile quello che ha rappresentato la guerra civile nell’ex-Jugoslavia terminata meno di due anni prima dell’atto performante. Come al termine di una battaglia si possono ripulire i campi, le strade, le città dai resti, da quello che rimane, non si potrà mai dimenticare, così non si potrà mai ripulire la mente dal ricordo delle barbarie della guerra. Una performance che si può estendere ad ogni guerra, ad ogni attentato, ad ogni gesto di ferocia dell’uomo contro un altro uomo. A tal proposito ricordo un’altra opera, si tratta di “La zattera della Medusa” (1818-1819) di Théodore Géricault. Formalmente il quadro è costruito secondo uno sviluppo piramidale dei soggetti raffigurati. La drammaticità della scena è dovuta alla rappresentazione dei morti e dei vivi. Di coloro che si sono arresi al destino e chi resiste e spera. La storia prende spunto della nave francese Medusa affondata nel 1816 e narra di alcuni degli occupanti che si salvarono dopo essere rimasti naufraghi per varie settimane su una zattera. Molto morirono dopo momenti di tormento, sofferenza e dolore (ci furono anche fenomeni di cannibalismo). Il quadro, oltre a voler rappresentare il fatto di cronaca, ha una connotazione più generale rappresentando la vita umana in bilico tra speranza e disperazione. Proprio in questi giorni, non lo conoscevo prima, mi sono imbattuta in un interessantissimo disegno di Gustave Doré dal titolo “Putto con pistola su un mucchio di teschi” (esposto nel 2014 a Venezia presso la Collezione Peggy Guggenheim con una mostra, che purtroppo non ho visto, dal titolo Solo per i tuoi occhi. Una collezione privata, dal Manierismo al Surrealismo”). La tecnica è penna e pennello con inchiostro di china su carta ma non ho trovato la datazione (ma lo possiamo collocare all’incirca nella seconda metà dell’800, vista la data di nascita e morte dell’autore: 1832-1883. Fa parte di una collezione privata.). Da menzionare anche la fotografia di Ambroise Tézenas (“I was here: dark tourism”, 2008-2014) che mostra, indirettamente, il dolore. Con un soggetto diverso ma un significato forse associabile, se consideriamo la sofferenza umana, è l’installazione datata 1991 di Félix González-Torres dal titolo “Untitled (Portrait of Ross in L.A.) (Rif.1). Artista concettuale-minimalista ci regala un’opera semplice nella forma ma intensa nei contenuti. All’apparenza è solo un cumulo di caramelle colorate, dal peso di 79 chili (variabile), collocato in un angolo del museo. Il visitatore è incentivato a prendere una caramella, a scartarla e mangiarla e così, visitatore dopo visitatore, il mucchio di caramelle diminuisce in dimensioni e peso, e questo si ripete all’infinito essendo infinita la fornitura di caramelle. Ma cosa c’è dietro a tutto questo? C’è un artista, ci sono i suoi sentimenti, e soprattutto il suo compagno, Ross Laycock, morto di AIDS nel 1991. Il peso delle caramelle non è casuale ma rappresenta il peso corporeo di Ross prima della malattia e la riduzione del peso è la metafora del corpo che si consuma lentamente fino alla fine. E ogni volta che vengono aggiunte le caramelle è come una nuova vita per Ross. Dobbiamo sempre considerare il momento storico-sociale in cui le opere sono create. In questo caso siamo proprio nel momento in cui questa terribile malattia ha seminato morte e paura e la società era divisa tra malati e coloro che li emarginavano. 

La zattera della Medusa 
Theodore Gericaut (1818-1819) 
 Balkan Baroque Marina Abramovic (1997)
Putto con pistola su
un mucchio di teschi
Gustave Dor
 I was here: dark tourism 

Ambroise Tézenas (2008-2014)
Untitled (Portrait of Ross in L.A.) Félix González-Torres (1991)




















Abbandonando le sofferenze umane passiamo ad un concetto diverso ed ecco altre opere. Michelangelo Pistoletto con “Venere degli stracci” (1967) (Rif.1) un’installazione che appartiene alla corrente dell’Arte Povera. E’ costituita da un cumulo di vestiti consunti ed una copia in finto marmo (cemento ricoperto di mica) raffigurante la Venere. Il nostro artista biellese fa una sorta di brutta copia della neoclassica “Venere con mela” che troviamo al Louvre; brutta copia nel senso che è fatta di materiale povero. Inoltre, invece di essere una figura solenne raffigurante la bellezza femminile per antonomasia, la statua è in parte immersa nel cumulo di stracci pertanto posta di schiena allo spettatore al quale non volge lo sguardo. Lo spettatore è posto di fronte a ciò che può rappresentare il suo vissuto, questi vecchi indumenti potrebbero essere di ognuno di noi. Sicuramente rappresentano l’emblema del consumismo. Come non citare Andy Warhol artista simbolo della Pop-Art con - come esempio tra molti prodotto di consumo - i “Brillo Boxes” (1964) ossia il detersivo che viene riprodotto in modo seriale e quasi fedele (cambiano le dimensioni ed i colori) e che pertanto è in contrapposizione con il mondo dell’arte tradizionale dove il pezzo unico era una caratteristica fondamentale. Non manca ovviamente il significato socio-culturale. Associabile a questo, la fotografia di Zoe Leonard. Ricordo anche Andreas Gursky con “99 cent” (1999), il significato è molto simile ai precedente indicando un supermercato pieno di prodotti scontati e forse di scarsa qualità. 

Venere degli stracci
Michelangelo Pistoletto (1967)
Brillo Boxes
Andy Warhol (1964)
Analogue Zoe Leonard (1998-2009)
99 cent - Andreas Gursky (1999)













Rimanendo nel mondo della fotografia è sicuramente da citare David LaChapelle con “Icarus” (2012). L’opera è un messaggio critico sulla società dipendente dalla tecnologia e poco attenta alla natura. Forte la valenza simbolica della discarica di computer che sono rotti, in disuso, diventati obsoleti ed inutili. Altri simboli sono le ali e la caduta ossia il desiderio di oltrepassare il limite con l’incapacità e l’impossibilità di superarlo nonostante gli sforzi. Il desiderio e la brama di Icaro di raggiungere lo spazio riservato agli dei ne provoca la sua caduta e la sua fine. Concludo questa breve panoramica con l’opera di Arman “Nuits de chine” (1976) un accumulo di fisarmoniche su un carrello. Un accumulo di rifiuti della società dei consumi, banalmente acculi di spazzatura, che diventano arte. Pezzi rotti di oggetti, come in questo caso uno strumento musicale, che rincollato conserva la memoria di quello che è stato e della sua funzione.

Icarus
David LaChapelle (2012)
Nuits de chine - Arman (1976) 












“Il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve soltanto allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale questo stesso contenuto si costituisce ed acquista la sua compiuta determinatezza. L'atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l'atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico” (Rif.2).

Rif.1: M. Mazzolini, Matite colorate. Appunti d’arte. - Ed. Linea Edizioni

Rif.2: E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche.

sabato 23 settembre 2017

Riflessioni circa il significato dei termini vedere e guardare.

Scrivere circa il significato dei termini vedere, guardare e comunicare è impresa tutt’altro che semplice, considerato il fatto che se ne scrive e se ne parla molto. La mia breve e semplice analisi ha inizio con una citazione tratta dal libro “Vita e morte dell’immagine” di R. Debray: “Una catena di parole ha un senso, una sequenza d’immagini ne ha mille. Una parola può avere un doppio o un triplo fondo, ma le sue ambivalenze sono reperibili in un dizionario, esaustivamente numerabili: si può andare a capo dell’enigma. Un’immagine è per sempre e definitivamente enigmatica. Ha tante versioni potenziali quanti esseri umani, di cui nessuna può costituire autorità, e quella dell’autore non più di qualsiasi altra. Polisemìa inesauribile. Non si può fare ad un testo tutto quello che si vuole, ad un’immagine si”. Per verificare quest’affermazione - soffermandomi esclusivamente sulla molteplicità di significato che possiamo attribuire ad un’immagine - pensiamo ad una fotografia o un quadro. Che sentimenti suscita in noi, cosa ricorda? Cosa vuole dire l’autore? Cosa comunica? “Cosa vediamo quando guardiamo”? Questa è la domanda principale che dobbiamo porci quando siamo difronte ad un’opera che faccia parte delle arti visive, qualsiasi essa sia: dipinto, fotografia, scultura, anche un’installazione ed ogni forma artistica che abbia a che fare con un soggetto visibile. Vedere e guardare (come i termini sentire ed ascoltare, conoscere e sapere) sono, secondo il dizionario, due sinonimi e pertanto spesso utilizzati in modo intercambiabile, l’uno vale l’altro. E’ difficile comprenderne le differenze e le somiglianze tanto che esistono varie scuole di pensiero. Innanzitutto, cercando sul dizionario la definizione di “sinonimo” si trova: si dice di parola che ha sostanzialmente lo stesso significato di una o più parole, anche se presenta differenti sfumature e ha un diverso uso stilistico ed espressivo”. Pensando al termine “vedere” (dal latino videre) viene in mente la vista che presuppone l’uso degli organi di senso, gli occhi (che fanno parte dell’apparato detto visivo), per mezzo dei quali si percepisce il mondo esterno. Significa percepire con gli occhi, cogliere con la facoltà della vista.  In prima istanza un atto meccanico per cui basta avere gli occhi aperti ed una sufficiente illuminazione. Ma lo stesso termine vuole anche dire: rendersi conto, prendere coscienza, riconoscere, comprendere, rendersi responsabili. Si parla di non vedente o ipovedente per una persona cieca o con specifiche patologie. Di terzo occhio (noto anche come occhio interiore) quando si vuole indicare la capacità di percepire realtà invisibili che vanno oltre la visione ordinaria. Allo stesso tempo è radice della parola “visionario” ossia una persona che ha delle visioni, delle allucinazioni, un sognatore, colui che immagina ed elabora, quindi chi con la visione va oltre. Nel linguaggio della critica d’arte si parla di pittura o arte visionaria per qualificare opere figurative prodotte da artisti, per lo più autodidatti, schizofrenici o comunque affetti da disturbi psichici (un esempio Vincent van Gogh). Ma anche artisti particolarmente dotati, dalle capacità di creare situazioni ed immagini fantastiche, irreali e di forte impatto visivo, quindi autori di talento (un nome su tutti: Salvador Dalì). Nell’analisi del termine non si può non considerare la fisiologia della visione. L’immagine reale, quella del nostro campo visivo, viene proiettata - attraverso il cristallino che la capovolge e rimpicciolisce - sulla retina, il tessuto dalla struttura complessa ed altamente specializzata, in cui sono localizzati coni e bastoncelli (neuroni fotosensibili) che catturano e trasformano il segnale luminoso proveniente dall’esterno in segnale chimico-elettrico (Reazione detta foto-trasduzione. L’immagine viene destrutturata). In seguito il nervo ottico lo trasmette al cervello, nella corteccia visiva. Questi primi meccanismi, uniti all’esperienza consolidata nel nostro cervello, permettono di separare la figura dallo sfondo e dal contorno, vengono interpretati colori, forma, movimento e cosi vediamo quello che c’è nel nostro campo visivo (seguendo le leggi ben spiegate dalla teoria della Gestalt). Si dice che il nostro sistema sensoriale è creativo (Cit. da “L’età dell’inconscio” di E. Kandel). Il termine visione indica anche una percezione interiore, inconscia, dettata dalla nostra memoria e dall’empatia. In effetti, nella corteccia celebrale esiste una percezione visiva di ordine superiore (che anche S. Freud aveva ipotizzato): il cervello elabora le immagini e tale processo è composto da due parti, due livelli. Quello iniziale si basa sui primi stadi del sistema visivo ed è fondamentalmente uguale per tutti gli osservatori di una stessa opera d’arte, a parità di condizioni fisiologiche. Al contrario il secondo si basa su meccanismi che assegnano categorie e significati e sulla conoscenza precedente, conservata come memoria in specifiche regioni del cervello (ippocampo e lobo temporale), seguendo un’elaborazione unica per ciascun osservatore che potrà essere differente in tempi diversi. Questo perché l’aspetto più notevole della nostra percezione visiva è che la maggior parte di ciò che vediamo (nei volti, nei corpi e nelle mani delle altre persone) è determinato da processi che operano indipendentemente dallo schema luminoso che colpisce la nostra retina. E’ il lavoro di elaborazione visiva di alto livello ad integrare le due parti unendo i riferimenti alla memoria (fondamentale per la risposta percettiva ed emotiva dell’osservatore all’arte) confrontando l’informazione visiva in arrivo e le esperienze precedenti. In questo modo un’immagine sarà caratterizzata dal “vedere” personale. La parola “guardare” è una fase avanzata del “vedere”. Significa stare in guardia (deriva dal francone wardon), esaminare, osservare per giudicare, esercitare le facoltà visive razionalmente e non inconsciamente come quando vediamo. E’ un meccanismo che prescinde dal percepire stimoli esterni attraverso l’organo della vista ed è determinato da curiosità, ragionamenti, esperienze, emozioni, sensibilità, cultura e dal contesto storico-sociale nel quale ci troviamo. Tutti ne abbiamo la capacità ma dobbiamo svilupparla ed esercitarla. "Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito e le persone che hai amato" (Ansel Adams). Philippe Daverio nel suo libro “Guardar lontano, veder vicino” afferma “personalmente ho imparato a guardare le opere d’arte da ragazzo perché mi capitava di vederle”Partendo dal vedere e passando attraverso il guardare si arriva al “comunicare”. Un’opera d’arte è caratterizzata da tre parti fondamentali. La forma ossia la tecnica usata che viene determinata dall’autore e sarà uguale per ogni osservatore. Il soggetto che indica il tema affrontato, in cui troviamo quello che raffigura o rappresenta l’opera ed il suo contesto; anch’esso guidato dalla scelta dell’artista. Infine il contenuto cioè il concetto, quello che comunica, che è individuale e conseguenza del nostro “vedere” e “guardare”. Pertanto un’opera d’arte esprime il pensiero dell’autore ma anche quello che noi riusciamo a recepire prima inconsciamente e poi razionalmente analizzando l’opera, le emozioni e le riflessioni che suscita in noi. Il verbo comunicare è molto importante perché l’uomo da sempre ha cercato di farlo con i suoi simili per lasciare una traccia di sé. Deriva dal latino cum (con) e munire (legare) e da communico ossia mettere in comune, in comunicazione, far partecipe. Indica il processo di trasmissione di un’informazione attraverso lo scambio di un messaggio elaborato secondo le regole di un determinato codice che deve avere una comprensibile rappresentazione delle cose, dei simboli e dei segni. Il primo esempio di comunicazione per immagini lo troviamo a partire dall’uomo delle caverne, con le pitture rupestri, e avanzando lungo il sentiero della storia si scopre come in tutte le epoche l’essere umano abbia utilizzato l’arte visiva per tale esigenza, come espressione e memoria cambiando, nel corso dei secoli, la forma, il soggetto ed il contenuto. Col passare del tempo si modifica anche la stessa definizione di artista. Un importante passo verso il cambiamento arriva a metà del 1800 con la nascita dell’artista impegnato. Questa nuova figura deve la sua origine al pittore francese Gustave Courbet (e il quadro “Funerale a Ornans” 1849-1850, Musée d’Orsay Parigi) che ha segnato l’inizio della storia dell’arte moderna e che modifica completamente il modo di fare pittura. Qualche decennio prima di questa data c’è un altro importante avvenimento. Il mondo dell’arte figurativa è rivoluzionato quando nel 1839 assistiamo alla nascita ufficiale e alla diffusione della fotografia (la cui storia inizia prima e cui dedicherò una serie dettagliata di post). La sua invenzione avviene in un momento storico ben preciso, vale a dire nel momento in cui l’uomo ha percepito l’esigenza di documentare la realtà in modo più rapido e più semplice di quanto non si potesse fare con la pittura. Ma se inizialmente l’unico vero compito della fotografia era quello di “copiare” in modo preciso la realtà, attraverso strumenti tecnici, diventa a poco a poco, un mezzo di comunicazione e di espressione, fino ad essere definita Arte. Per mezzo dei sempre più frenetici stimoli esterni, in continuo aumento, l’arte subisce trasformazioni ed evoluzioni e con essa evolve anche il nostro modo di vedere e di guardare e dunque di comunicare che deve necessariamente adeguarsi ai tempi; come sostiene Bruno Munari “L'arte è ricerca continua, assimilazione delle esperienze passate, aggiunta di esperienze nuove, nelle forma, nel contenuto, nella materia, nella tecnica, nei mezzi”.