giovedì 15 giugno 2017

L'autoritratto in pittura e in fotografia

Nel corso della storia molti pittori e fotografi si sono cimentati nell’autoritratto mentre critici e studiosi (oltre che gli stessi artisti) ne hanno dato una definizione ed una motivazione. Partirei proprio da loro per cercare di inquadrare con parole autorevoli questo concetto complesso e di non facile analisi. Lo storico dell’Arte Antonio Natali scrive: “L’artista sceglie se stesso come modello; e ritraendosi accetta il gioco analitico che ognuno, con diversi gradi di competenza, praticherà sulla sua carne viva. La postura del corpo, lo scatto del volto, i lampi degli occhi, l’attitudine affettiva, il corredo d’oggetti: tutto sarà della sua effigie passato al vaglio. E l’esercizio d’una lettura introspettiva godrà di mille varianti, venendosi in esso a sommare le peculiarità psicologiche dell’artista e quelle dell’esegeta”. E ancora, la critica di fotografia Susan Bright, dal libro Autofocus. L'autoritratto nella fotografia contemporanea (Contrasto, 2010): “Cosa viene raffigurato in un autoritratto? Storicamente, l'autoritratto (soprattutto nei dipinti) è sempre stato concepito come rappresentazione delle emozioni, come esteriorizzazione dei sentimenti intimi e come una profonda autoanalisi e auto contemplazione che avrebbe il potere di conferire una sorta d’immortalità all'artista. Quando osserviamo un autoritratto fotografico, vediamo piuttosto una dimostrazione di amore del Sé. Chiunque possieda una macchina fotografica, a prescindere che sia un artista o meno, ha l'impulso di puntarla su se stesso e i fotografi o gli artisti che non hanno mai ritratto se stessi sono una rarità”. In effetti, è proprio così! E, se a partire dal Medioevo rinveniamo i primi autoritratti pittorici (in cui sono messi in evidenza anche gli strumenti di lavoro di colui che era ancora considerato un artigiano), sarà nel Rinascimento che questi vedranno la loro esplosione ed affermazione, con un significato ed una funzione differenti. E’ in questo momento che s’incomincia a parlare di artista come figura padrona di creatività, con una precisa posizione culturale e sociale. In fotografia da subito si hanno i primi autoritratti con Robert Cornelius nell’ottobre 1839 e Hippolyte Bayard nello stesso mese dell’anno successivo; in pittura i primi sono quello di Jan van Eyck del 1433 e di Jean Fouquet del 1450. 

Robert Cornelius
Ottobre 1839
Hippolyte Bayard
18 Ottobre 1840













Jan van Eyck (1433) 
Jean Fouquet (1450)












Significato e funzione cambiano nel corso delle epoche passando dalla sola rappresentazione dell’artista (o meglio artigiano) affermato o che si sta affermando, alla sua elevazione come artista, alla denuncia, all’introspezione e all’autoanalisi con le angosce, le paure e la descrizione dell’immagine di Sè. Questo cambiamento è dovuto alla nascita della psicoanalisi, nei primi del ‘900, che aiuta nella lettura più profonda delle opere d’arte ed anche dal fatto che gli artisti, ancora una volta, cambiano ruolo ed atteggiamento, e da professionisti di spessore culturale riconosciuti socialmente ed economicamente, diventano, sempre più spesso, personalità isolate che vivono male con se stessi e con il loro tempo. E così l’autoritrarsi diventa (per molti) profondo e drammatico. Di contro ci sono anche ritratti ironici o dove il concetto di “bello” ha il suo significato. Dalla predilezione per la rappresentazione del volto (che comprende lo sguardo e l’espressione) si arriva all’interesse per interezza del corpo, a volte reale, immaginario, idealizzato, spesso disarmonico, talvolta sensuale, andando alla ricerca di un’interiorità che diventa ancora più profonda e completa, analizzando non solo la connotazione fisica dell’autore ma anche la sua identità attraverso la rappresentazione di carattere, pensieri, emozioni, sogni, angosce, ansie, tormenti. Si fanno strada gli autoritratti concettuali, nei quali la fisionomia viene celata, mascherata o risulta assente (parzialmente o totalmente), per dare spazio ad altro, ma anche situazioni complesse ed interessanti con sdoppiamenti e riflessi. Tutti atteggiamenti che posso diventare e che spesso sono specchio della vita, della società e del tempo. Lo scopo è quello di comprendersi e farsi comprendere, esorcizzare ma anche lasciare una traccia, lasciare una memoria (una sorta d’illusione di immortalità… a volte si usa la parola “immortalare” o “farsi immortalare”… tale modo di dire deriva proprio da questo concetto). Attraverso e per mezzo dell’autoritratto ci si pongono domande, si cercano risposte, ci si pone difronte a noi stessi (ma anche difronte agli altri, che possono esserci di aiuto nella comprensione), ci si conosce e ci si fa conoscere. Molto spesso è difficile ritrovarsi e piacersi perché l’immagine che ci siamo fatti non coincide con quella reale. Ed è soprattutto con la fotografia che si ottiene questo problema d’identificazione. Davanti ad uno specchio, un riflesso, una nostra fotografia, che evidenziano un primo piano o la figura intera, ognuna di queste situazioni ci svela e ci rivela qualcosa di noi: una deformazione, una smorfia, una specifica postura, un atteggiamento… a volte rimaniamo stupiti, increduli, altre volte invece ci riconosciamo perfettamente.
Può venir spontaneo pensare che ci sia una fondamentale differenza tra l’autoritratto in pittura e quello fotografico che consiste nelle tempistiche. In effetti, la realizzazione di un dipinto è più lunga, pertanto si tende a pensare, a mio avviso erroneamente, che il primo sia più meditato del secondo e che il suo approccio sia più pensato. Certo nel corso dell’opera pittorica è facile modificare anche solo sfumature che nell’attimo colto dalla fotografia non è possibile cambiare (se ne possono solo fare e rifare tante). Ma sono convinta che anche per la fotografia le scelte compositive, il pensiero che sta alla base, l’eventuale ambientazione, necessitino di uno studio e di una progettualità. Al giorno d’oggi, con l’utilizzo dei cellulari e dei social, sono tanto usati i selfie che possiamo tradurre con la parola autoritratti ma la condizione imprescindibile per poterli definire tali e per poter ottenere delle buone fotografie, è il fatto che - oltre alla loro intrinseca caratteristica di istantaneità e spontaneità (che se ci pensiamo bene sono anche una prerogativa della street photography o fotografia di strada) - hanno bisogno della componente artistica e questa è una condizione importante ed una differenza marcata per distinguere un buon selfie da tutti quelli che ogni giorno vengono prodotti. Di sicuro la discordanza tra pittura e fotografia è in quell’attimo che non si potrà più ripetere (per lo meno che non sarà mai più identico). Credo sia capitato a tutti durante un autoscatto (spesso di difficile realizzazione) che il risultato sia inesatto, mosso, sfuocato, mal composto, e quello successivo non sarà mai più “fermato” allo stesso modo.
Qui di seguito una selezione (di certo non esauriente… tutt’altro) che ho fatto tralasciando tutti gli autoritratti con la presenza di superfici riflettenti o in cui compaiono figure doppie poiché questi aspetti - importantissimi e che ci parlano del nostro essere e della nostra psicologia - l’ho in parte affrontati attraverso la tematica dello specchio e del doppio.

Sofonisba Anguissola
(1554)

Rembrandt (1663)


Joshua Reynolds (circa 1748)

Henri Fantin-Latour (1858) 

Bruno Croatto (1875)
Egon Schiele (1910)
Lucian Freud (1956)

Frida Kahlo (1940)

Bozidar Jakac (1974)

Francis Bacon (1976)


































Felix Nadar (1865)
Paolo Monti (1952)

Ansel Adams (1972)

Francesca Woodman (1976)

Lee Friedlander (1968)

Nan Goldin (1994)

Robert Mapplethorpe (1988)

Mario Cresci (2009-2016)



































Mi piace concludere come ho iniziato, con una frase, che per me non è stata di facile lettura, ci ho dovuto riflettere per un pò prima di capire. Il pensiero è di Jacques Derrida, un filosofo e studioso francese: E’ impossibile descrivere e fermare chi siamo. Non si può parlare dell’Essere di parmenidea memoria (per Parmenide il tempo è apparenza perché implicherebbe il venire in essere degli eventi ovvero un passaggio assurdo dal loro precedente non essere, ciò che in futuro non è ancora, all’essere, ossia il presente. Per Parmenide l’essere è ora). C’è solo una traccia di quello che siamo. Fulminea, sempre presente ma difficilmente coglibile che non lascia davvero che si possa afferrare ciò che siamo e ciò che è. Nella scrittura, quanto nella pittura (io aggiungo anche nella fotografia), quello che davvero conta non è ciò che diciamo consapevolmente e cerchiamo di ipostatizzare (ossia quello per cui possiamo, pur essendone sprovvisto, attribuire un’esistenza sostanziale ossia personificare un valore astratto, incarnare un concetto o un’idea): è il non detto che involontariamente tracciamo di noi a poter dare una qualche traccia autobiografica. È l’invisibile, l’inaspettato quello che davvero ci racconta qualcosa dell’altro: non è il ritratto di Van Gogh a dirci chi era, ma quei segni invisibili che, ossimoricamente (l’ossimoro è una figura retorica che consiste nell’accostamento di due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro), ci sono ma non si vedono”.