Nel corso della storia molti pittori e fotografi si sono cimentati
nell’autoritratto mentre critici e studiosi (oltre che gli stessi artisti) ne hanno
dato una definizione ed una motivazione. Partirei proprio da loro per cercare
di inquadrare con parole autorevoli questo concetto complesso e di non facile
analisi. Lo storico dell’Arte Antonio Natali scrive: “L’artista sceglie se
stesso come modello; e ritraendosi accetta il gioco analitico che ognuno, con
diversi gradi di competenza, praticherà sulla sua carne viva. La postura del
corpo, lo scatto del volto, i lampi degli occhi, l’attitudine affettiva, il
corredo d’oggetti: tutto sarà della sua effigie passato al vaglio. E
l’esercizio d’una lettura introspettiva godrà di mille varianti, venendosi in
esso a sommare le peculiarità psicologiche dell’artista e quelle dell’esegeta”.
E ancora, la critica di
fotografia Susan Bright, dal libro Autofocus. L'autoritratto nella fotografia contemporanea (Contrasto, 2010): “Cosa viene
raffigurato in un autoritratto? Storicamente, l'autoritratto (soprattutto nei
dipinti) è sempre stato concepito come rappresentazione delle emozioni, come
esteriorizzazione dei sentimenti intimi e come una profonda autoanalisi e auto
contemplazione che avrebbe il potere di conferire una sorta d’immortalità
all'artista. Quando osserviamo un autoritratto fotografico, vediamo piuttosto
una dimostrazione di amore del Sé. Chiunque possieda una macchina fotografica,
a prescindere che sia un artista o meno, ha l'impulso di puntarla su se stesso
e i fotografi o gli artisti che non hanno mai ritratto se stessi sono una
rarità”. In effetti, è proprio così! E, se a partire dal Medioevo rinveniamo i
primi autoritratti pittorici (in cui sono messi in evidenza anche gli strumenti
di lavoro di colui che era ancora considerato un artigiano), sarà nel
Rinascimento che questi vedranno la loro esplosione ed affermazione, con un
significato ed una funzione differenti. E’ in questo momento che s’incomincia a
parlare di artista come figura padrona di creatività, con una precisa posizione
culturale e sociale. In fotografia da subito si hanno i primi autoritratti con Robert
Cornelius nell’ottobre 1839 e Hippolyte Bayard nello stesso mese dell’anno successivo;
in pittura i primi sono quello di Jan van Eyck del 1433 e di Jean Fouquet del
1450.
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Robert Cornelius
Ottobre 1839 |
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Hippolyte Bayard
18 Ottobre 1840 |
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Jan van Eyck (1433) |
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Jean Fouquet (1450) |
Significato e funzione cambiano nel corso delle epoche passando dalla
sola rappresentazione dell’artista (o meglio artigiano) affermato o che si sta
affermando, alla sua elevazione come artista, alla denuncia, all’introspezione
e all’autoanalisi con le angosce, le paure e la descrizione dell’immagine di Sè.
Questo cambiamento è dovuto alla nascita della psicoanalisi, nei primi del
‘900, che aiuta nella lettura più profonda delle opere d’arte ed anche dal
fatto che gli artisti, ancora una volta, cambiano ruolo ed atteggiamento, e da professionisti
di spessore culturale riconosciuti socialmente ed economicamente, diventano,
sempre più spesso, personalità isolate che vivono male con se stessi e con il
loro tempo. E così l’autoritrarsi diventa (per molti) profondo e drammatico. Di
contro ci sono anche ritratti ironici o dove il concetto di “bello” ha il suo significato.
Dalla predilezione per la
rappresentazione del volto (che comprende lo sguardo e l’espressione) si arriva
all’interesse per interezza del corpo, a volte reale, immaginario, idealizzato,
spesso disarmonico, talvolta sensuale, andando alla ricerca di un’interiorità che
diventa ancora più profonda e completa, analizzando non solo la connotazione
fisica dell’autore ma anche la sua identità attraverso la rappresentazione di
carattere, pensieri, emozioni, sogni, angosce, ansie, tormenti. Si fanno strada
gli autoritratti concettuali, nei quali la fisionomia viene celata, mascherata
o risulta assente (parzialmente o totalmente), per dare spazio ad altro, ma
anche situazioni complesse ed interessanti con sdoppiamenti e riflessi. Tutti
atteggiamenti che posso diventare e che spesso sono specchio della vita, della
società e del tempo. Lo scopo è quello di comprendersi e farsi comprendere,
esorcizzare ma anche lasciare una traccia, lasciare una memoria (una sorta d’illusione
di immortalità… a volte si usa la parola “immortalare” o “farsi immortalare”…
tale modo di dire deriva proprio da questo concetto). Attraverso e per mezzo
dell’autoritratto ci si pongono domande, si cercano risposte, ci si pone
difronte a noi stessi (ma anche difronte agli altri, che possono esserci di
aiuto nella comprensione), ci si conosce e ci si fa conoscere. Molto spesso è
difficile ritrovarsi e piacersi perché l’immagine che ci siamo fatti non
coincide con quella reale. Ed è soprattutto con la fotografia che si ottiene
questo problema d’identificazione. Davanti ad uno specchio, un riflesso, una
nostra fotografia, che evidenziano un primo piano o la figura intera, ognuna di
queste situazioni ci svela e ci rivela qualcosa di noi: una deformazione, una
smorfia, una specifica postura, un atteggiamento… a volte rimaniamo stupiti,
increduli, altre volte invece ci riconosciamo perfettamente.
Può venir spontaneo pensare che ci
sia una fondamentale differenza tra
l’autoritratto in pittura e quello fotografico che consiste nelle tempistiche.
In effetti, la realizzazione di un dipinto è più lunga, pertanto si tende a
pensare, a mio avviso erroneamente, che il primo sia più meditato del secondo e
che il suo approccio sia più pensato. Certo nel corso dell’opera pittorica è
facile modificare anche solo sfumature che nell’attimo colto dalla fotografia
non è possibile cambiare (se ne possono solo fare e rifare tante). Ma sono
convinta che anche per la fotografia le scelte compositive, il pensiero che sta
alla base, l’eventuale ambientazione, necessitino di uno studio e di una
progettualità. Al giorno d’oggi, con l’utilizzo dei cellulari e dei social,
sono tanto usati i selfie che possiamo tradurre con la parola autoritratti ma
la condizione imprescindibile per poterli definire tali e per poter ottenere
delle buone fotografie, è il fatto che - oltre alla loro intrinseca
caratteristica di istantaneità e spontaneità (che se ci pensiamo bene sono anche
una prerogativa della street
photography o fotografia di strada) -
hanno bisogno della componente artistica e questa è una condizione importante
ed una differenza marcata per distinguere un buon selfie da tutti quelli che
ogni giorno vengono prodotti. Di sicuro
la discordanza tra pittura e fotografia è in quell’attimo che non si potrà più
ripetere (per lo meno che non sarà mai più identico). Credo sia capitato a
tutti durante un autoscatto (spesso di difficile realizzazione) che il
risultato sia inesatto, mosso, sfuocato, mal composto, e quello successivo non
sarà mai più “fermato” allo stesso modo.
Qui di seguito una selezione (di certo non esauriente… tutt’altro) che ho
fatto tralasciando tutti gli autoritratti con la presenza di superfici
riflettenti o in cui compaiono figure doppie poiché questi aspetti -
importantissimi e che ci parlano del nostro essere e della nostra psicologia - l’ho
in parte affrontati attraverso la tematica dello specchio e del doppio.
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Sofonisba Anguissola
(1554) |
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Rembrandt (1663) |
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Joshua Reynolds (circa 1748) |
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Henri Fantin-Latour (1858) |
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Bruno Croatto (1875) |
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Egon Schiele (1910) |
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Lucian Freud (1956) |
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Frida Kahlo (1940) |
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Bozidar Jakac (1974) |
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Francis Bacon (1976) |
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Felix Nadar (1865) |
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Paolo Monti (1952) |
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Ansel Adams (1972) |
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Francesca Woodman (1976) |
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Lee Friedlander (1968) |
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Nan Goldin (1994) |
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Robert Mapplethorpe (1988) |
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Mario Cresci (2009-2016) |
Mi piace concludere come ho
iniziato, con una frase, che per me non è stata di facile lettura, ci ho dovuto
riflettere per un pò prima di capire. Il pensiero è di Jacques Derrida, un
filosofo e studioso francese: “E’ impossibile descrivere e fermare chi siamo. Non si
può parlare dell’Essere di parmenidea memoria (per Parmenide
il tempo è apparenza perché implicherebbe il venire in essere degli eventi
ovvero un passaggio assurdo dal loro precedente non essere, ciò che in futuro
non è ancora, all’essere, ossia il presente. Per Parmenide l’essere è ora). C’è solo una traccia di quello che siamo.
Fulminea, sempre presente ma difficilmente coglibile che non lascia davvero che
si possa afferrare ciò che siamo e ciò che è. Nella scrittura, quanto nella
pittura (io aggiungo anche nella fotografia), quello che davvero conta non è ciò che diciamo consapevolmente e
cerchiamo di ipostatizzare (ossia quello per cui possiamo,
pur essendone sprovvisto, attribuire un’esistenza sostanziale ossia personificare
un valore astratto, incarnare un concetto o un’idea): è il non detto che involontariamente tracciamo di noi a poter dare
una qualche traccia autobiografica. È
l’invisibile, l’inaspettato quello che davvero ci racconta qualcosa dell’altro:
non è il ritratto di Van Gogh a dirci chi era, ma quei segni invisibili che,
ossimoricamente (l’ossimoro è una figura retorica che consiste
nell’accostamento di due termini di senso contrario o comunque in forte
antitesi tra loro), ci sono ma non si
vedono”.