Questo scritto
nasce da una riflessione circa il concetto, molto attuale e spesso chiamato in
causa, per cui siamo invasi da molte immagini... Forse troppe? Ognuno ha la sua
rispettabile idea in merito... A questo ben si aggancia l’installazione “24 hours in photos” (2011) dell’artista
olandese Erik Kessel che ci mette difronte - non all’idea astratta - ma alla
concretezza della quantità di fotografie che vengono condivise in un giorno
(scelto a caso) su internet. Per il suo intento le ha scaricate e stampate
tutte per poi accumularle nel luogo che all’occorrenza l’ha ospitato. Il risultato?
Un enorme e straripante cumulo di fotografie poste disordinatamente l’una
sull’altra. Fotografie che rappresentano la sintesi della nostra società: fotografie
intime e private, fotografie familiari, fotografie turistiche, fotografie di
ogni tipo, con differenti oggetti e soggetti. Questo “mucchio” può essere
definito un simbolo della nosta società perchè ne sono racchiuse molte
caratteristiche. Perchè simbolo? Secondo il mio tanto caro dizionario sìmbolo
deriva dal latino. symbŏlus e symbŏlum e dal greco σύμβολον e συμβάλλω e significa accostamento, segno di
riconoscimento, mettere insieme, far coincidere. Rappresenta qualsiasi elemento (segno, gesto, oggetto, animale, persona) atto a
suscitare nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato
aspetto sensibile, ma capace di evocarla attraverso qualcuno degli aspetti che
caratterizzano l’elemento stesso, a cui si attribuisce la possibilità di
richiamare o significare un valore ulteriore, più ampio e astratto rispetto a
quello che normalmente rappresenta. Ma ritornando all’Arte, nella mia mente
riallaccio alla sorta di “voyerismo” dell’opera sopra citata, il film “One Hour Photo” (2002 scritto,
sceneggiato e diretto da Mark Romanek) dove il protagonista principale, commesso
di un negozio, ci mostra la sua morbosità e idealizzazione nei confronti della
famiglia di una cliente abituale. Ne diventa ossessionato a tal punto che tappezza una parete del suo appartamento con tutte le loro
foto, ottenute dai rullini sviluppati nel corso negli anni, come una sorta di
metodo destinato a riempire il vuoto dell’animo.
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24 hours in photos - Erik Kessel (2011) |
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Scena dal film One Hour Photo |
Andando a spulciare nella mia memoria mi son venute in mente altre opere che hanno a che
fare con i “mucchi”. Sono fotografie, disegni, dipinti, installazioni e
performance con simboli e significati talvolta differenti e talora
confrontabili o associabili e che rappresentano una denuncia nei confronti della
società. Penso alla performance di Marina Abramovic - che nel 1997 presenta
alla Biennale di Venezia - “Balkan Baroque” (Rif.1): seduta sopra un
cumulo di ossa animali, cantando
canzoni tipiche della sua terra (lei è di origine balcanica), munita di
spazzola di ferro gratta le ossa, una ad una, per ripulirle. Il canto e il
gesto uniti all’odore pungente simboleggiano in maniera chiara, profonda ed
indelebile quello che ha rappresentato la guerra civile nell’ex-Jugoslavia
terminata meno di due anni prima dell’atto performante. Come al termine di una
battaglia si possono ripulire i campi, le strade, le città dai resti, da quello
che rimane, non si potrà mai dimenticare, così non si potrà mai ripulire la
mente dal ricordo delle barbarie della guerra. Una performance che si può
estendere ad ogni guerra, ad ogni attentato, ad ogni gesto di ferocia dell’uomo
contro un altro uomo. A tal proposito ricordo un’altra opera, si tratta di “La zattera della Medusa” (1818-1819) di
Théodore Géricault. Formalmente il quadro è costruito
secondo uno sviluppo piramidale dei soggetti raffigurati. La drammaticità della
scena è dovuta alla rappresentazione dei morti e dei vivi. Di coloro che si
sono arresi al destino e chi resiste e spera. La storia prende spunto della nave francese
Medusa affondata nel 1816 e narra di alcuni degli occupanti che si salvarono
dopo essere rimasti naufraghi per varie settimane su una zattera. Molto
morirono dopo momenti di tormento, sofferenza e dolore (ci furono anche
fenomeni di cannibalismo). Il quadro, oltre a voler rappresentare il fatto di
cronaca, ha una connotazione più generale rappresentando la vita umana in
bilico tra speranza e disperazione. Proprio in questi giorni, non lo conoscevo prima, mi sono imbattuta in un interessantissimo disegno di Gustave
Doré dal titolo “Putto con pistola su un
mucchio di teschi” (esposto nel 2014 a Venezia presso la Collezione Peggy Guggenheim con una mostra, che
purtroppo non ho visto, dal titolo “Solo per i tuoi occhi. Una collezione privata, dal Manierismo al
Surrealismo”). La tecnica è penna e pennello con
inchiostro di china su carta ma non ho trovato la datazione (ma lo possiamo
collocare all’incirca nella seconda metà dell’800, vista la data di nascita e
morte dell’autore: 1832-1883. Fa
parte di una collezione privata.). Da menzionare anche la fotografia di Ambroise Tézenas (“I was here: dark
tourism”, 2008-2014) che mostra, indirettamente, il dolore. Con un soggetto diverso ma un
significato forse associabile, se consideriamo la sofferenza umana, è
l’installazione datata 1991 di Félix
González-Torres dal titolo “Untitled
(Portrait of Ross in L.A.) (Rif.1)”.
Artista concettuale-minimalista ci
regala un’opera semplice nella forma ma intensa nei contenuti. All’apparenza è
solo un cumulo di caramelle colorate, dal peso di 79 chili (variabile), collocato
in un angolo del museo. Il visitatore è incentivato a prendere una caramella, a
scartarla e mangiarla e così, visitatore dopo visitatore, il mucchio di
caramelle diminuisce in dimensioni e peso, e questo si ripete all’infinito
essendo infinita la fornitura di caramelle. Ma cosa c’è dietro a tutto questo?
C’è un artista, ci sono i suoi sentimenti, e soprattutto il suo compagno, Ross
Laycock, morto di AIDS nel 1991. Il peso delle caramelle non è casuale ma
rappresenta il peso corporeo di Ross prima della malattia e la riduzione del
peso è la metafora del corpo che si consuma lentamente fino alla fine. E ogni
volta che vengono aggiunte le caramelle è come una nuova vita per Ross. Dobbiamo
sempre considerare il momento storico-sociale in cui le opere sono create. In
questo caso siamo proprio nel momento in cui questa terribile malattia ha
seminato morte e paura e la società era divisa tra malati e coloro che li
emarginavano.
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La zattera della Medusa Theodore Gericaut (1818-1819) |
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Balkan Baroque Marina Abramovic (1997) |
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Putto con pistola su un mucchio di teschi Gustave Dor |
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I was here: dark tourism
Ambroise Tézenas (2008-2014)
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Untitled (Portrait of Ross in L.A.) Félix González-Torres (1991) |
Abbandonando le
sofferenze umane passiamo ad un concetto diverso ed ecco altre opere. Michelangelo
Pistoletto con “Venere degli stracci”
(1967) (Rif.1) un’installazione che appartiene alla corrente dell’Arte Povera.
E’ costituita da un cumulo di vestiti consunti ed una copia in finto marmo
(cemento ricoperto di mica) raffigurante la Venere. Il nostro artista biellese
fa una sorta di brutta copia della neoclassica “Venere con mela” che troviamo
al Louvre; brutta copia nel senso che è fatta di materiale povero. Inoltre,
invece di essere una figura solenne raffigurante la bellezza femminile per
antonomasia, la statua è in parte immersa nel cumulo di stracci pertanto posta
di schiena allo spettatore al quale non volge lo sguardo. Lo spettatore è posto
di fronte a ciò che può rappresentare il suo vissuto, questi vecchi indumenti
potrebbero essere di ognuno di noi. Sicuramente rappresentano l’emblema del
consumismo. Come non citare Andy Warhol artista simbolo della Pop-Art con -
come esempio tra molti prodotto di consumo - i “Brillo Boxes” (1964) ossia il detersivo che viene riprodotto in
modo seriale e quasi fedele (cambiano le dimensioni ed i colori) e che pertanto
è in contrapposizione con il mondo dell’arte tradizionale dove il pezzo unico
era una caratteristica fondamentale. Non manca ovviamente il significato
socio-culturale. Associabile a questo, la fotografia di Zoe Leonard. Ricordo anche
Andreas Gursky con “99 cent” (1999),
il significato è molto simile ai precedente indicando un supermercato pieno di
prodotti scontati e forse di scarsa qualità.
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Venere degli stracci Michelangelo Pistoletto (1967) |
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Brillo Boxes Andy Warhol (1964) |
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Analogue Zoe Leonard (1998-2009) |
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99 cent - Andreas Gursky (1999) |
Rimanendo nel mondo della
fotografia è sicuramente da citare David LaChapelle con “Icarus” (2012). L’opera è un messaggio critico sulla società
dipendente dalla tecnologia e poco attenta alla natura. Forte la valenza simbolica della discarica di
computer che sono rotti, in disuso, diventati obsoleti ed inutili. Altri
simboli sono le ali e la caduta ossia il desiderio di oltrepassare il limite con
l’incapacità e l’impossibilità di superarlo nonostante gli sforzi. Il desiderio
e la brama di Icaro di raggiungere lo spazio riservato agli dei ne provoca la
sua caduta e la sua fine. Concludo questa breve panoramica
con l’opera di Arman “Nuits de chine” (1976) un accumulo di
fisarmoniche su un carrello. Un accumulo di rifiuti della società dei consumi,
banalmente acculi di spazzatura, che diventano arte. Pezzi rotti di oggetti,
come in questo caso uno strumento musicale, che rincollato conserva la memoria
di quello che è stato e della sua funzione.
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Icarus David LaChapelle (2012) |
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Nuits de chine - Arman (1976) |
“Il simbolo non è il
rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed
essenziale. Esso non serve soltanto allo scopo di comunicare un contenuto
concettuale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale questo
stesso contenuto si costituisce ed acquista la sua compiuta determinatezza.
L'atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo
con l'atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico” (Rif.2).
Rif.1: M.
Mazzolini, Matite colorate. Appunti d’arte. - Ed. Linea Edizioni
Rif.2: E.
Cassirer, Filosofia delle forme simboliche.